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domenica 27 gennaio 2013

Jozsef Mindszenty, Servo di Dio, Cardinale, Primate d'Ungheria - Csehimindszent, Austria-Ungheria, 29 marzo 1892 - Vienna, Austria, 6 maggio 1975


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Servo di Dio Jozsef Mindszenty Cardinale, Primate d’Ungheria
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Csehimindszent, Austria-Ungheria, 29 marzo 1892 - Vienna, Austria, 6 maggio 1975
Già Primate d’Ungheria, venne nominato cardinale da papa Pio XII nel 1946. Per la sua tenace opposizione al regime comunista, venne arrestato una prima volta nel 1944 con l'accusa di alto tradimento. Rilasciato l'anno seguente, fu nuovamente incarcerato il 26 dicembre 1948 e condannato all'ergastolo l'anno successivo con l'accusa di cospirazione tesa a rovesciare il governo comunista ungherese. Liberato dopo otto anni di carcere durante la insurrezione popolare del 1956, trovò asilo politico nell'ambasciata americana di Budapest. Per molti anni Mindszenty rifiutò l'invito del Vaticano a trovare riparo presso lo stato pontificio e solo quindici anni dopo, nel 1971, con l'interessamento dell'allora presidente Nixon, poté finalmente lasciare l'ambasciata e raggiungere la Santa Sede. Poco dopo si stabilì a Vienna, dove morì per un arresto cardiaco sussegente ad un intervento chirurgico. Nel 1991 le sue ceneri vennero solennemente trasportate da Mariazell ad Esztergom, città ungherese nella quale fu arcivescovo, per essere tumulate nella cripta della Basilica.


Mindzent è un villaggio di campagna nella pianura ungherese. Il 29 marzo 1892, da Janos Pehn e Borbàla Kovacs, viticultori, nacque Jozsef: era bello, sano, robusto e i suoi genitori erano fieri di lui.
Ogni giorno, al tramonto, si raccoglievano tutti, genitori e figli, a pregare la Madonna con il Rosario. Fattosi più grandicello, la mamma insegnò a Jozsef a servire la Santa Messa. Presso l’altare, durante la celebrazione eucaristica, egli percepiva sempre più chiaro che non c’è nulla di più bello e grande al mondo che offrire a Dio il Sacrificio di Gesù e annunciare il Vangelo ai fratelli. Così, affascinato dall’Eucarestia, decise che sarebbe diventato sacerdote.
Nel 1903, entrò nel Seminario tenuto dai Padri Premostratensi a Szombathely. Superate le difficoltà iniziali, fu presto tra i primi della classe. Leggeva moltissimo: storia, letteratura, filosofia, teologia. Superata la “maturità” con ottimo in tutte le materie, cominciò gli studi teologici nel Seminario della sua diocesi.
Era giovane, ma aveva la statura di un capo. Durante gli studi di teologia, si appassionò ancora di più a Cristo: seguirlo e amarlo per farlo conoscere e amare dai fratelli era per lui l’avventura più grande che potesse toccare a un uomo sulla terra.
Il 12 giugno 1915, solennità del Sacro Cuore di Gesù, mentre già l’Europa era in fiamme per la Prima guerra mondiale, Jozsef Pehn diventa sacerdote di Cristo.

Ascesa: 56 anni
Quel giorno fu l’inizio di un lungo cammino, segnato di amore e di pianto, destinazione il Calvario. Il primo ministero, Don Jozsef lo svolse come vice-parroco a Felsopathy. Serviva poveri e ricchi con l’amore di Cristo: esemplare, coltissimo, predicatore dalla parola calda come quella dei profeti. Fu mandato a insegnare religione nelle scuole statali di Zalaegerszeg e i giovani allievi ne furono conquistati.
Nell’ottobre del 1918, per l’azione della massoneria, crollò la monarchia asburgica, e il marzo seguente, in Ungheria, segnò l’avvento al potere dei comunisti di Bela Kun.
Don Joseph fu subito arrestato. Ma la dittatura dei “rossi” finì presto, e Don Jozsef, appena ventottenne, fu nominato parroco di Zalaegerszeg: il 1° ottobre 1919, iniziò il suo apostolato in un territorio di sedicimila anime, con cinque comunità filiali. Il problema più grave gli parve quello dell’istruzione. Il giovane parroco promosse la scuola e la catechesi intensa offrendo luce e verità alle associazioni laicali, e inserendo Gesù tra le persone di cultura. Comprendeva che i tempi nuovi avrebbero richiesto credenti colti e forti nella fede.
Fece costruire chiese, case parrocchiali e scuole, ponendo in primo piano l’evangelizzazione, la preghiera, l’adorazione a Gesù Eucaristico, la devozione alla Madonna. Per 25 anni, tutto il tempo trascorso a Zalaegerszeg, non ci fu settore della sua gente che lui non illuminasse con il Vangelo, appassionato, gentile e irruente come i cavalli della prateria magiara.
Nel 1941, Don Jozsef Pehn, deciso oppositore dei nazisti che dilagavano per l’Europa, per protesta contro di loro, abbandonò il suo cognome d’origine germanica e volle chiamarsi Mindszenty, dal suo paese natale.
Per la sua preparazione e il suo coraggio, in un momento tanto difficile, il 4 marzo 1944, il Santo Padre Pio XII lo nominò Vescovo di Veszprem. Lì giunse dieci giorni dopo che i nazisti avevano occupato la città. Insieme agli altri Vescovi magiari, si impegnò subito a soccorrere gli Ebrei e molti di loro furono salvati dal lager e dalla morte.
Mentre la guerra infieriva, Mons. Mindszenty si spendeva per i più poveri, organizzava giornate di preghiera per i suoi preti, appoggiava l’apostolato dei laici, promuoveva visite tra le famiglie e l’assistenza ai malati, creava nuove parrocchie e apriva scuole. E così presto finì per la seconda volta in carcere, sotto i nazisti.
Intanto da oriente, l’armata rossa invadeva l’Ungheria, saccheggiando, distruggendo, violentando, con il proposito di “liberare” il Paese. In quei giorni terribili, Pio XII nominò Monsignor Mindszenty Arcivescovo di Esztergom (l’antica Strigonia) e Primate d’Ungheria.

“Patì sotto Stalin”
“Voglio essere un buon pastore – disse l’8 dicembre 1945 – iniziando il nuovo servizio – un pastore pronto a dare la vita per il suo gregge”.
Apprestò soccorsi contro la fame: i comunisti lo bloccarono. Si diede a proteggere prigionieri e sofferenti: i comunisti glielo proibirono. Anzi, cominciarono la repressione della Chiesa in Ungheria. In difesa della scuola cattolica, organizzò le associazioni dei genitori. Ci vollero tre anni, prima che i comunisti, ormai insidiatisi al governo con la violenza, sostenuti da Stalin, nazionalizzassero le scuole: quando ciò avvenne, il 18 giugno 1948, l’Arcivescovo fece suonare a morto le campane di tutta la nazione in segno di protesta.
Nel ’46, fatto Cardinale, si impegnò ancora di più nel suo lavoro. La porpora ha il colore del sangue effuso per amore a Cristo e alla Chiesa. Lui l’avrebbe, a suo modo, versato. Fondò nuove parrocchie, organizzò pellegrinaggi, il più famoso, al santuario nazionale d’Ungheria, vide centomila persone al suo seguito. Durante l’anno mariano, da lui voluto nel ‘47, cinque milioni di fedeli parteciparono alle celebrazioni. I comunisti impazzivano di rabbia. Rakosi, il proconsole di Stalin a Budapest, attaccò il Cardinale con inaudita violenza: lui rimase impavido come quercia sotto la bufera.
Giunse così il 26 dicembre 1948: allo scendere della sera, mentre il Cardinale pregava per il suo popolo, si spalancò all’improvviso la porta della sua cappella: entrò il colonnello di polizia Decsi con i suoi sgherri e lo dichiarò in arresto. Quelli lo trascinarono al n. 60 di via Andrassy, a Budapest dove già la Gestapo compiva le sue torture. Quello che lì i comunisti compirono contro il santo Cardinale è una delle infamie più grandi della storia.
Per 39 giorni, ogni sera lo portavano in un seminterrato freddo e umido, lo spogliavano tra le risate dei suoi aguzzini, lo coprivano di botte su tutto il corpo, quindi lo riportavano in cella a dormire, per risvegliarlo e cominciare da capo. Il motivo: costringerlo a confessare di essere stato “un nemico del popolo”. Pesto e sanguinante, distrutto ormai nel fisico e nello spirito, lo minacciano di farlo comparire davanti alla sua anziana mamma in quello stato. Dopo 39 giorni, nei quali ha sperimentato sulla sua pelle che cosa è il comunismo, il Card. Mindszenty crolla: pone la sua firma sotto una confessione che quelli sono riusciti a estorcergli e aggiunge sotto il suo nome, “C.F.” (= “coactus feci”: firmai perché costretto). Gli aguzzini comunisti avevano spezzato una delle più nobili figure della Chiesa Cattolica.
In quelle ore terribili, egli pregava la Madonna per il suo popolo, per i giovani, per sé, affinché non mancasse mai la sua fedeltà a Cristo, fino al sangue, fino alla morte.
Il 3 febbraio 1949, i dirigenti comunisti condussero il Cardinale Mindszenty in tribunale, rasato e vestito a nuovo, l’anello al dito. Con un processo farsa, come quello condotto dai giudei contro Gesù, lo condannarono all’ergastolo. Da Roma, Pio XII fu il suo più forte sostenitore e in tutte le occasioni smascherò a voce alta “la giustizia” marxista. Il mondo libero ascoltò la voce del Sommo Pontefice e ne condivise lo sdegno.
Rimase in carcere, offrendo e pregando in unione a Gesù Crocefisso, fino all’ottobre 1956, quando, durante l'insurrezione degli ungheresi contro i sovietici, i suoi figli di Budapest lo liberarono. Pochi giorni di libertà, poi il buio ritornò in terra magiara, con i carri armati di Krusciov. Da allora, il Cardinale Mindszenty visse, senza poter mai uscire, neanche per andare ai funerali della sua vecchia mamma, all’ambasciata americana.
Una vita di silenzio, di preghiera, di offerta continua a Dio per l’Ungheria e per tutta la Chiesa. Segno vivente di che cos’è oggi il martire che patisce per Cristo sotto i moderni Neroni della storia.

L’esule e il santo
Nel 1971, per volontà di Papa Paolo VI, il Cardinale martire dalla porpora insanguinata, giunse libero a Roma. Partecipò al Sinodo dei Vescovi in corso, e alzò indomito la sua voce per dare voce alla Chiesa del silenzio. Poi si stabilì a Vienna, al Pasmaneum, come la sentinella che vigila sulla terra del suo amore e attende l’aurora.
Aveva 80 anni, ma ancora forte e fiero, come Ignazio di Antiochia e Policarpo di Smirne, i Vescovi martiri della prima generazione cristiana, percorse il mondo a tenere viva la speranza tra gli ungheresi lontani dalla patria, a parlare di Verità, di libertà e di amore in nome di Cristo.
In quei giorni del suo esilio, io che, ancora bambino, mi ero appassionato alla sua vicenda di martirio e mi entusiasmavo per Gesù pensando a lui, gli scrissi una breve lettera in latino per dirgli il mio ossequio e la mia affezione... Mi rispose a stretto giro di posta, con una sua foto e un cartoncino su cui a grandi caratteri, scrisse: “Super te et discipulos tuos, benedictio mea. Josephus Card. Mindszenty”.
Andò incontro a Dio il 6 maggio 1975, a Vienna, dopo aver scritto le sue Memorie (Ed. Rusconi, Milano, 1975), testimonianza altissima della sua grande anima, della sua dedizione a Cristo e della sua santità. Sepolto per 15 anni a Mariazell, in Austria, dal 1990, al crollo del comunismo nell’est europeo, è stato traslato nella sua cattedrale a Budapest, dove a rendergli omaggio si è pure recato il Papa Giovanni Paolo II.
Sulla sua tomba avvengono grazie e guarigioni e dilaga la sua fama di santità. Proprio per questo, è in corso la sua causa di beatificazione. Il suo esempio per tutti – e quella sua benedizione per me indimenticabile – che profuma di sangue versato come quello di Gesù, e la sua intercessione in cielo presso Dio ci aiutino a comprendere, nell’indifferenza di oggi, come si ama, come si lavora, come si soffre per il Cristo e per la Chiesa e come si converte il mondo a Lui.

Autore: 
Paolo Risso
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Aggiunto il 2007-09-27

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Riportiamo un brano tratto da "Memorie" di Jòzsef Mindszenty - Rusconi Editore (pag.282). Il libro è introvabile purtroppo nelle librerie:


"... In un pomeriggio invernale del 1954 notai che la mia vista si era straordinariamente indebolita. Pur stando molto vicino alla lampadina elettrica non riuscivo quasi più a leggere il breviario. Ciononostante lo recitai con grande fatica. All'improvviso mi parve che la cella e tutto il mondo mi girassero intorno. Sul libro e lungo la parete turbinavano cerchi colorati. di più non ricordo. Quando a poco a poco ripresi conoscenza, mi trovai steso a terra con accanto il breviario e una pozza di sangue. Mi tastai un po' dappertutto. I capelli erano inzuppati di sangue. mi alzai a fatica e cercai di ricostruire l'accaduto: mi ero messo con la schiena girata alla stufa, probabilmente mi era venuto un capogiro e nel cadere avevo battuto il capo, rimanendo a lungo privo di conoscenza. Mi buttai sul letto. Quasi non riuscivo più a muovere le gambe tremanti. Con il fazzoletto umido ripulii la nuca, i capelli e il pavimento dal sangue. poi legai il fazzoletto attorno al capo ferito, per non sporcar di sangue il cuscino e le lenzuola, tuttavia non riuscii a fermarlo completamente. Le guardie non notarono nulla di tutto questo. La cosa è strana, se si pensa che si mostravano così attente quando si trattava di mettermi in tavola la carne di venerdì o di importunarmi quando pregavo in ginocchio. Invece avevano semplicemente ignorato quella caduta e continuarono a non  accorgersene anche quando alle sei vennero a portarmi la cena. Solo quando rovistarono il letto a fine della settimana, in occasione del cambio della biancheria trovarono il cuscino e la camicia macchiati di sangue. Allora comparve il comandante e mi interrogò come se sospettasse un tentativo di suicidio, ma senza preoccuparsi che il fazzoletto, il quale serviva contemporaneamente da strofinaccio per levare la polvere, avrebbe potuto procurarmi una infezione.

Durante quel periodo mia madre aveva ottenuto il permesso per farmi un'altra visita. Come al solito, dovevo incontrarmi con lei a Vac. Quando mi vide, rimase così impressionata del mio stato di salute che domandò tutta indignata: " Non vi vergognate di lasciare i prigionieri in questo stato? Per che cosa paghiamo le tasse? Se non volete o non potete occuparvene voi, permettete almeno che sia io ad occuparmi di mio figlio. Manderò del denaro per il mangiare, ditemi quanto ci vuole!". L'ufficiale di polizia che assisteva all'incontro rimase di stucco. Non rispose, ma fece presente la cosa al ministero. E il ministero, incredibile a dirsi, accettò la proposta di mia madre. Naturalmente durante la visita successiva mia madre mi domandò che cosa mi avevano dato da mangiare con i soldi che ella aveva inviato. Io le disse che, purtroppo, non avevo notato miglioramenti apprezzabili e la pregai di non inviare altri soldi al ministero, anche perchè ne aveva bisogno lei per la sua casa e perchè toccava alla direzione del carcere prendersi cura di me.Tutto ciò risultò molto spiacevole all'ufficiale di polizia. dopo la partenza di mia madre arrivò il comandante e mi domandò che cosa gradissi da mangiare. Gli risposi che non avevo piatti preferiti. Però da allora in poi mi servirono un cibo più sostanzioso e gustoso. Oltre a ciò mi visitavano continuamente. I medici tenevano consulti a cui partecipava anche il comandante. Per parte mia ero diventato indifferente alla morte e alla vita. Dopo tutto questo il 13 maggio 1954 mi trasferirono nell'ospedale di una prigione comune dove rimasi senza interruzione fino al 17 luglio dell'anno successivo. Alla vigilia della partenza il nuovo comandante del carcere entrò nella mia cella. Ammise che era stato accertato che nei miei riguardi erano state fatte cose non proprio conformi alla legge. Io rimasi meravigliato, poichè non conoscevo niente dell'aria nuova che soffiava per il paese. Seppi della morte di Stalin parlando con mia madre solo molto tempo dopo che era avvenuta. Pensavo che un avvenimento del genere avrebbe portato cambiamenti, che ora avrebbero raggiunto anche la mia cella, ma non riuscivo ad immaginarmi che al timone del paese ci potesse ora essere Imre Nagy ..."









Bibliografia:
Titolo: Memorie

Autore: Jòzsef Mindszenty

Casa Editrice: Rusconi

Anno di Pubblicazione: gennaio 1975

Numero pagine: 390







Il 6 maggio 1975 è nata una Stella in cielo.
Cardinale Mindszenty prega per l'Ungheria e per tutti noi.












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