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domenica 27 gennaio 2013

Jozsef Mindszenty, Servo di Dio, Cardinale, Primate d'Ungheria - Csehimindszent, Austria-Ungheria, 29 marzo 1892 - Vienna, Austria, 6 maggio 1975


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Servo di Dio Jozsef Mindszenty Cardinale, Primate d’Ungheria
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Csehimindszent, Austria-Ungheria, 29 marzo 1892 - Vienna, Austria, 6 maggio 1975
Già Primate d’Ungheria, venne nominato cardinale da papa Pio XII nel 1946. Per la sua tenace opposizione al regime comunista, venne arrestato una prima volta nel 1944 con l'accusa di alto tradimento. Rilasciato l'anno seguente, fu nuovamente incarcerato il 26 dicembre 1948 e condannato all'ergastolo l'anno successivo con l'accusa di cospirazione tesa a rovesciare il governo comunista ungherese. Liberato dopo otto anni di carcere durante la insurrezione popolare del 1956, trovò asilo politico nell'ambasciata americana di Budapest. Per molti anni Mindszenty rifiutò l'invito del Vaticano a trovare riparo presso lo stato pontificio e solo quindici anni dopo, nel 1971, con l'interessamento dell'allora presidente Nixon, poté finalmente lasciare l'ambasciata e raggiungere la Santa Sede. Poco dopo si stabilì a Vienna, dove morì per un arresto cardiaco sussegente ad un intervento chirurgico. Nel 1991 le sue ceneri vennero solennemente trasportate da Mariazell ad Esztergom, città ungherese nella quale fu arcivescovo, per essere tumulate nella cripta della Basilica.


Mindzent è un villaggio di campagna nella pianura ungherese. Il 29 marzo 1892, da Janos Pehn e Borbàla Kovacs, viticultori, nacque Jozsef: era bello, sano, robusto e i suoi genitori erano fieri di lui.
Ogni giorno, al tramonto, si raccoglievano tutti, genitori e figli, a pregare la Madonna con il Rosario. Fattosi più grandicello, la mamma insegnò a Jozsef a servire la Santa Messa. Presso l’altare, durante la celebrazione eucaristica, egli percepiva sempre più chiaro che non c’è nulla di più bello e grande al mondo che offrire a Dio il Sacrificio di Gesù e annunciare il Vangelo ai fratelli. Così, affascinato dall’Eucarestia, decise che sarebbe diventato sacerdote.
Nel 1903, entrò nel Seminario tenuto dai Padri Premostratensi a Szombathely. Superate le difficoltà iniziali, fu presto tra i primi della classe. Leggeva moltissimo: storia, letteratura, filosofia, teologia. Superata la “maturità” con ottimo in tutte le materie, cominciò gli studi teologici nel Seminario della sua diocesi.
Era giovane, ma aveva la statura di un capo. Durante gli studi di teologia, si appassionò ancora di più a Cristo: seguirlo e amarlo per farlo conoscere e amare dai fratelli era per lui l’avventura più grande che potesse toccare a un uomo sulla terra.
Il 12 giugno 1915, solennità del Sacro Cuore di Gesù, mentre già l’Europa era in fiamme per la Prima guerra mondiale, Jozsef Pehn diventa sacerdote di Cristo.

Ascesa: 56 anni
Quel giorno fu l’inizio di un lungo cammino, segnato di amore e di pianto, destinazione il Calvario. Il primo ministero, Don Jozsef lo svolse come vice-parroco a Felsopathy. Serviva poveri e ricchi con l’amore di Cristo: esemplare, coltissimo, predicatore dalla parola calda come quella dei profeti. Fu mandato a insegnare religione nelle scuole statali di Zalaegerszeg e i giovani allievi ne furono conquistati.
Nell’ottobre del 1918, per l’azione della massoneria, crollò la monarchia asburgica, e il marzo seguente, in Ungheria, segnò l’avvento al potere dei comunisti di Bela Kun.
Don Joseph fu subito arrestato. Ma la dittatura dei “rossi” finì presto, e Don Jozsef, appena ventottenne, fu nominato parroco di Zalaegerszeg: il 1° ottobre 1919, iniziò il suo apostolato in un territorio di sedicimila anime, con cinque comunità filiali. Il problema più grave gli parve quello dell’istruzione. Il giovane parroco promosse la scuola e la catechesi intensa offrendo luce e verità alle associazioni laicali, e inserendo Gesù tra le persone di cultura. Comprendeva che i tempi nuovi avrebbero richiesto credenti colti e forti nella fede.
Fece costruire chiese, case parrocchiali e scuole, ponendo in primo piano l’evangelizzazione, la preghiera, l’adorazione a Gesù Eucaristico, la devozione alla Madonna. Per 25 anni, tutto il tempo trascorso a Zalaegerszeg, non ci fu settore della sua gente che lui non illuminasse con il Vangelo, appassionato, gentile e irruente come i cavalli della prateria magiara.
Nel 1941, Don Jozsef Pehn, deciso oppositore dei nazisti che dilagavano per l’Europa, per protesta contro di loro, abbandonò il suo cognome d’origine germanica e volle chiamarsi Mindszenty, dal suo paese natale.
Per la sua preparazione e il suo coraggio, in un momento tanto difficile, il 4 marzo 1944, il Santo Padre Pio XII lo nominò Vescovo di Veszprem. Lì giunse dieci giorni dopo che i nazisti avevano occupato la città. Insieme agli altri Vescovi magiari, si impegnò subito a soccorrere gli Ebrei e molti di loro furono salvati dal lager e dalla morte.
Mentre la guerra infieriva, Mons. Mindszenty si spendeva per i più poveri, organizzava giornate di preghiera per i suoi preti, appoggiava l’apostolato dei laici, promuoveva visite tra le famiglie e l’assistenza ai malati, creava nuove parrocchie e apriva scuole. E così presto finì per la seconda volta in carcere, sotto i nazisti.
Intanto da oriente, l’armata rossa invadeva l’Ungheria, saccheggiando, distruggendo, violentando, con il proposito di “liberare” il Paese. In quei giorni terribili, Pio XII nominò Monsignor Mindszenty Arcivescovo di Esztergom (l’antica Strigonia) e Primate d’Ungheria.

“Patì sotto Stalin”
“Voglio essere un buon pastore – disse l’8 dicembre 1945 – iniziando il nuovo servizio – un pastore pronto a dare la vita per il suo gregge”.
Apprestò soccorsi contro la fame: i comunisti lo bloccarono. Si diede a proteggere prigionieri e sofferenti: i comunisti glielo proibirono. Anzi, cominciarono la repressione della Chiesa in Ungheria. In difesa della scuola cattolica, organizzò le associazioni dei genitori. Ci vollero tre anni, prima che i comunisti, ormai insidiatisi al governo con la violenza, sostenuti da Stalin, nazionalizzassero le scuole: quando ciò avvenne, il 18 giugno 1948, l’Arcivescovo fece suonare a morto le campane di tutta la nazione in segno di protesta.
Nel ’46, fatto Cardinale, si impegnò ancora di più nel suo lavoro. La porpora ha il colore del sangue effuso per amore a Cristo e alla Chiesa. Lui l’avrebbe, a suo modo, versato. Fondò nuove parrocchie, organizzò pellegrinaggi, il più famoso, al santuario nazionale d’Ungheria, vide centomila persone al suo seguito. Durante l’anno mariano, da lui voluto nel ‘47, cinque milioni di fedeli parteciparono alle celebrazioni. I comunisti impazzivano di rabbia. Rakosi, il proconsole di Stalin a Budapest, attaccò il Cardinale con inaudita violenza: lui rimase impavido come quercia sotto la bufera.
Giunse così il 26 dicembre 1948: allo scendere della sera, mentre il Cardinale pregava per il suo popolo, si spalancò all’improvviso la porta della sua cappella: entrò il colonnello di polizia Decsi con i suoi sgherri e lo dichiarò in arresto. Quelli lo trascinarono al n. 60 di via Andrassy, a Budapest dove già la Gestapo compiva le sue torture. Quello che lì i comunisti compirono contro il santo Cardinale è una delle infamie più grandi della storia.
Per 39 giorni, ogni sera lo portavano in un seminterrato freddo e umido, lo spogliavano tra le risate dei suoi aguzzini, lo coprivano di botte su tutto il corpo, quindi lo riportavano in cella a dormire, per risvegliarlo e cominciare da capo. Il motivo: costringerlo a confessare di essere stato “un nemico del popolo”. Pesto e sanguinante, distrutto ormai nel fisico e nello spirito, lo minacciano di farlo comparire davanti alla sua anziana mamma in quello stato. Dopo 39 giorni, nei quali ha sperimentato sulla sua pelle che cosa è il comunismo, il Card. Mindszenty crolla: pone la sua firma sotto una confessione che quelli sono riusciti a estorcergli e aggiunge sotto il suo nome, “C.F.” (= “coactus feci”: firmai perché costretto). Gli aguzzini comunisti avevano spezzato una delle più nobili figure della Chiesa Cattolica.
In quelle ore terribili, egli pregava la Madonna per il suo popolo, per i giovani, per sé, affinché non mancasse mai la sua fedeltà a Cristo, fino al sangue, fino alla morte.
Il 3 febbraio 1949, i dirigenti comunisti condussero il Cardinale Mindszenty in tribunale, rasato e vestito a nuovo, l’anello al dito. Con un processo farsa, come quello condotto dai giudei contro Gesù, lo condannarono all’ergastolo. Da Roma, Pio XII fu il suo più forte sostenitore e in tutte le occasioni smascherò a voce alta “la giustizia” marxista. Il mondo libero ascoltò la voce del Sommo Pontefice e ne condivise lo sdegno.
Rimase in carcere, offrendo e pregando in unione a Gesù Crocefisso, fino all’ottobre 1956, quando, durante l'insurrezione degli ungheresi contro i sovietici, i suoi figli di Budapest lo liberarono. Pochi giorni di libertà, poi il buio ritornò in terra magiara, con i carri armati di Krusciov. Da allora, il Cardinale Mindszenty visse, senza poter mai uscire, neanche per andare ai funerali della sua vecchia mamma, all’ambasciata americana.
Una vita di silenzio, di preghiera, di offerta continua a Dio per l’Ungheria e per tutta la Chiesa. Segno vivente di che cos’è oggi il martire che patisce per Cristo sotto i moderni Neroni della storia.

L’esule e il santo
Nel 1971, per volontà di Papa Paolo VI, il Cardinale martire dalla porpora insanguinata, giunse libero a Roma. Partecipò al Sinodo dei Vescovi in corso, e alzò indomito la sua voce per dare voce alla Chiesa del silenzio. Poi si stabilì a Vienna, al Pasmaneum, come la sentinella che vigila sulla terra del suo amore e attende l’aurora.
Aveva 80 anni, ma ancora forte e fiero, come Ignazio di Antiochia e Policarpo di Smirne, i Vescovi martiri della prima generazione cristiana, percorse il mondo a tenere viva la speranza tra gli ungheresi lontani dalla patria, a parlare di Verità, di libertà e di amore in nome di Cristo.
In quei giorni del suo esilio, io che, ancora bambino, mi ero appassionato alla sua vicenda di martirio e mi entusiasmavo per Gesù pensando a lui, gli scrissi una breve lettera in latino per dirgli il mio ossequio e la mia affezione... Mi rispose a stretto giro di posta, con una sua foto e un cartoncino su cui a grandi caratteri, scrisse: “Super te et discipulos tuos, benedictio mea. Josephus Card. Mindszenty”.
Andò incontro a Dio il 6 maggio 1975, a Vienna, dopo aver scritto le sue Memorie (Ed. Rusconi, Milano, 1975), testimonianza altissima della sua grande anima, della sua dedizione a Cristo e della sua santità. Sepolto per 15 anni a Mariazell, in Austria, dal 1990, al crollo del comunismo nell’est europeo, è stato traslato nella sua cattedrale a Budapest, dove a rendergli omaggio si è pure recato il Papa Giovanni Paolo II.
Sulla sua tomba avvengono grazie e guarigioni e dilaga la sua fama di santità. Proprio per questo, è in corso la sua causa di beatificazione. Il suo esempio per tutti – e quella sua benedizione per me indimenticabile – che profuma di sangue versato come quello di Gesù, e la sua intercessione in cielo presso Dio ci aiutino a comprendere, nell’indifferenza di oggi, come si ama, come si lavora, come si soffre per il Cristo e per la Chiesa e come si converte il mondo a Lui.

Autore: 
Paolo Risso
_______________________
Aggiunto il 2007-09-27

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Riportiamo un brano tratto da "Memorie" di Jòzsef Mindszenty - Rusconi Editore (pag.282). Il libro è introvabile purtroppo nelle librerie:


"... In un pomeriggio invernale del 1954 notai che la mia vista si era straordinariamente indebolita. Pur stando molto vicino alla lampadina elettrica non riuscivo quasi più a leggere il breviario. Ciononostante lo recitai con grande fatica. All'improvviso mi parve che la cella e tutto il mondo mi girassero intorno. Sul libro e lungo la parete turbinavano cerchi colorati. di più non ricordo. Quando a poco a poco ripresi conoscenza, mi trovai steso a terra con accanto il breviario e una pozza di sangue. Mi tastai un po' dappertutto. I capelli erano inzuppati di sangue. mi alzai a fatica e cercai di ricostruire l'accaduto: mi ero messo con la schiena girata alla stufa, probabilmente mi era venuto un capogiro e nel cadere avevo battuto il capo, rimanendo a lungo privo di conoscenza. Mi buttai sul letto. Quasi non riuscivo più a muovere le gambe tremanti. Con il fazzoletto umido ripulii la nuca, i capelli e il pavimento dal sangue. poi legai il fazzoletto attorno al capo ferito, per non sporcar di sangue il cuscino e le lenzuola, tuttavia non riuscii a fermarlo completamente. Le guardie non notarono nulla di tutto questo. La cosa è strana, se si pensa che si mostravano così attente quando si trattava di mettermi in tavola la carne di venerdì o di importunarmi quando pregavo in ginocchio. Invece avevano semplicemente ignorato quella caduta e continuarono a non  accorgersene anche quando alle sei vennero a portarmi la cena. Solo quando rovistarono il letto a fine della settimana, in occasione del cambio della biancheria trovarono il cuscino e la camicia macchiati di sangue. Allora comparve il comandante e mi interrogò come se sospettasse un tentativo di suicidio, ma senza preoccuparsi che il fazzoletto, il quale serviva contemporaneamente da strofinaccio per levare la polvere, avrebbe potuto procurarmi una infezione.

Durante quel periodo mia madre aveva ottenuto il permesso per farmi un'altra visita. Come al solito, dovevo incontrarmi con lei a Vac. Quando mi vide, rimase così impressionata del mio stato di salute che domandò tutta indignata: " Non vi vergognate di lasciare i prigionieri in questo stato? Per che cosa paghiamo le tasse? Se non volete o non potete occuparvene voi, permettete almeno che sia io ad occuparmi di mio figlio. Manderò del denaro per il mangiare, ditemi quanto ci vuole!". L'ufficiale di polizia che assisteva all'incontro rimase di stucco. Non rispose, ma fece presente la cosa al ministero. E il ministero, incredibile a dirsi, accettò la proposta di mia madre. Naturalmente durante la visita successiva mia madre mi domandò che cosa mi avevano dato da mangiare con i soldi che ella aveva inviato. Io le disse che, purtroppo, non avevo notato miglioramenti apprezzabili e la pregai di non inviare altri soldi al ministero, anche perchè ne aveva bisogno lei per la sua casa e perchè toccava alla direzione del carcere prendersi cura di me.Tutto ciò risultò molto spiacevole all'ufficiale di polizia. dopo la partenza di mia madre arrivò il comandante e mi domandò che cosa gradissi da mangiare. Gli risposi che non avevo piatti preferiti. Però da allora in poi mi servirono un cibo più sostanzioso e gustoso. Oltre a ciò mi visitavano continuamente. I medici tenevano consulti a cui partecipava anche il comandante. Per parte mia ero diventato indifferente alla morte e alla vita. Dopo tutto questo il 13 maggio 1954 mi trasferirono nell'ospedale di una prigione comune dove rimasi senza interruzione fino al 17 luglio dell'anno successivo. Alla vigilia della partenza il nuovo comandante del carcere entrò nella mia cella. Ammise che era stato accertato che nei miei riguardi erano state fatte cose non proprio conformi alla legge. Io rimasi meravigliato, poichè non conoscevo niente dell'aria nuova che soffiava per il paese. Seppi della morte di Stalin parlando con mia madre solo molto tempo dopo che era avvenuta. Pensavo che un avvenimento del genere avrebbe portato cambiamenti, che ora avrebbero raggiunto anche la mia cella, ma non riuscivo ad immaginarmi che al timone del paese ci potesse ora essere Imre Nagy ..."









Bibliografia:
Titolo: Memorie

Autore: Jòzsef Mindszenty

Casa Editrice: Rusconi

Anno di Pubblicazione: gennaio 1975

Numero pagine: 390







Il 6 maggio 1975 è nata una Stella in cielo.
Cardinale Mindszenty prega per l'Ungheria e per tutti noi.












venerdì 4 gennaio 2013

Venerabile Paolo Pio Perazzo - Terziario Francescano e Ferroviere - Nizza Monferrato, 5 luglio 1846 - Torino, 22 novembre 1911

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Presto i ferrovieri potrebbero avere un patrono in cielo, ma già adesso hanno un validissimo modello cui ispirarsi. Il “ferroviere santo” Paolo Pio Perazzo nasce a Nizza Monferrato nel 1846. A 15 anni, dopo il ginnasio, viene assunto come bigliettaio alle dipendenze delle piccole ferrovie del Regno Sardo, che nel tempo e proprio a partire da quell’anno (siamo nel 1861), diventeranno le ferrovie dello stato italiano. Prima lavora nella piccola stazione di Pinerolo, poi viene trasferito a Porta Nuova, a Torino. È intelligente, capace e solerte e così diventa autore di quasi tutti i regolamenti interni di cui le Ferrovie devono dotarsi in quegli anni. Ci sarebbe da aspettarsi che un uomo così faccia carriera e che possa aspirare ad un più che dovuto aumento di stipendio, invece, inspiegabilmente, non riesce ad andare oltre la qualifica di sotto-capoufficio, dato che gli rifiutano gli avanzamenti cui avrebbe diritto, se non altro per anzianità. Gli fanno sputare sangue anche sui turni di lavoro e sugli straordinari, in una parola cercano di rendergli la vita impossibile per il semplice fatto che lui non fa mistero della propria fede e non si piega a ricatti o a compromessi. In un periodo in cui la massoneria serpeggia nelle alte gerarchie delle Ferrovie, Paolo è antimassone dichiarato, fonda o dirige associazioni antiblasfeme, combatte il turpiloquio, è l’anima delle associazioni cattoliche di quella seconda metà dell’Ottocento torinese. Come se non bastasse, è legato da fraterna amicizia e da profonda sintonia spirituale con le figure eccellenti del cattolicesimo dell’epoca, da don Bosco al Murialdo, dalle sorelle Comoglio a  Giuseppe Toniolo e Faà di Bruno. Come a dire: i santi non spuntano come funghi e, da vicino o da lontano, si conoscono, si stimano e si aiutano a vicenda. Se Paolo vivesse oggi, il suo sarebbe un caso di mobbing da portare in tribunale, ma in un periodo in cui i diritti dei lavoratori fanno ancora fatica a farsi strada lui reagisce a modo suo all’indiscutibile discriminazione che i superiori esercitano a suo danno: svolgendo nel più scrupoloso dei modi il suo servizio, non badando ad orari, turni, riposi e festività, tutto orientato a trasformare il suo lavoro in mezzo di santificazione, come gli insegna anche la spiritualità francescana di cui è permeato come iscritto al Terz’Ordine. Per piacere, però, non chiamatelo crumiro e neppure desistente, piuttosto uomo dalla schiena diritta e dalle spalle larghe, che tutto sopporta con invidiabile serenità e inalterata fede in Dio, attingendo forza dall’Eucaristia, ricevuta e adorata, perché, tra l’altro, si è fatto promotore dell’adorazione quotidiana, fondando e presiedendo un’arciconfraternita, ancora oggi viva e operante. Forse in linea con lo stile di vita sobrio e austero che si è imposto, certamente in armonia con la sua coscienza di cattolico paziente e mite, rinuncia a far valere i propri diritti, ma non dimentica quelli dei colleghi e nel 1910 figura tra i fondatori del primo sindacato cattolico dei ferrovieri, per i quali fa stampare anche un periodico, “Il Direttissimo”. Mette la sua penna a servizio della stampa cattolica e il suo portafoglio a disposizione dei poveri, primi fra tutti i colleghi bisognosi, le loro vedove e i loro orfani, mentre le Conferenze di San Vincenzo torinesi lo annoverano tra i loro confratelli più fedeli e generosi. Dopo 47 anni di servizio neppur adeguatamente remunerato, Paolo viene collocato in pensione anticipata con due soli giorni di preavviso, per il semplice fatto di aver osato denunciare ai superiori i soprusi fino a quel punto subiti. Gli rovinano così anche la pensione e a nulla serve un ricorso al Consiglio di Stato, ma non per questo Paolo perde la sua serenità, ritrovandosi anzi con più tempo da dedicare alle varie associazioni di cui fa parte, in Diocesi ed anche fuori. Muore il 22 novembre 1911, per la morsicatura di un cagnolino rabbioso e per l’errata diagnosi dei medici, che gli fanno iniziare la cura antirabbica quando ormai per lui non c’è più nulla da fare. Sepolto in un primo tempo a Nizza Monferrato nella tomba di famiglia, 40 anni dopo il “santo di Porta Nuova” ritorna a Torino come in trionfo. Nel 1998, con il riconoscimento delle sue virtù eroiche, viene dichiarato venerabile e si attende un miracolo per la sua beatificazione.
Autore: Gianpiero Pettiti


Nel centro storico di Torino vi è la parrocchia di S. Tommaso apostolo, la cui prima costruzione risale al 1100 ca., grande centro di spiritualità francescana, per l’annesso convento che per molti anni fu “Provincia Francescana”, è stata ed è inserita nel grande movimento spirituale che interessò, specie nell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la storica città di Torino, che produsse tante figure di altissima santità, operanti specie nel campo del sociale, tanto da meritarsi il titolo di “Città dei Santi”.
Molti personaggi del secolo scorso, attendono il riconoscimento ufficiale della Chiesa della loro santità, alcuni di questi riposano nella suddetta Chiesa di S. Tommaso: le Serve di Dio Giuseppina e Teresa Comoglio, Catterina Lucia Bocchino, il servo di Dio Leopoldo Musso ed il venerabile Paolo Pio Perazzo.
E del venerabile Paolo Pio Perazzo ferroviere alla Stazione di Porta Nuova a Torino, parliamo in questa scheda biografica; per lui vale quanto affermava papa Pio XII: “Oggi non occorrono gli apologeti, ma i testimoni”, riferendosi ai nostri tempi ammalati di soggettivismo, in cui comunque l’uomo continua ad essere l’uomo di sempre, con i suoi pregi ed i suoi difetti.
Paolo Pio Perazzo (come ogni santo) è stato e resta un testimone credibile, perché da laico impegnato, ha consumato in silenzio il suo quotidiano martirio.
Nacque a Nizza Monferrato (Asti) il 5 luglio 1846 e battezzato il giorno dopo nella parrocchia di S. Siro, al nome Paolo fu aggiunto Pio in onore del papa appena eletto Pio IX; nel 1856 e 1867 ricevé la Prima Comunione e la Cresima; la sua grande guida fu lo zio don Carlo, professore di ginnasio che Paolo Pio seguirà nei suoi trasferimenti a Villafranca Piemonte, Moncalvo e Pinerolo e in quest’ultima località, a causa della malferma salute, dopo aver conseguito il diploma ginnasiale, su consiglio dello zio, egli lasciò gli studi e nell’anno dell’Unità d’Italia, il 31 maggio 1861 a 16 anni, entrò come volontario nella Stazione ferroviaria di Pinerolo.
Soprassediamo sui punti di convergenza della sua vita di allora, con la situazione delle non grandi Ferrovie del Regno Sardo, divenute con vari passaggi Ferrovie dello Stato; proseguiamo con il 1° febbraio 1867, quando a 21 anni venne trasferito da Pinerolo a Torino (Porta Nuova) dove resterà per 41 anni.
Il 15 aprile 1908 dopo solo 2 giorni e mezzo di preavviso, venne licenziato scandalosamente senza aver raggiunto ancora il limite di età e a nulla valse il ricorso al Consiglio di Stato; vedremo più avanti il perché, intanto se avesse compiuto la carriera normalmente, avrebbe dovuto raggiungere la qualifica di Capodivisione oppure di Ispettore Capo, invece rimase per tutta la vita un Capoufficio senza avanzamento di carriera e quasi sempre con lo stesso stipendio.
La sua attività di dipendente delle tre Società Ferroviarie fu esemplare, integerrima, pur nel caos spaventoso in cui versavano allora le gestioni, cercò di dare il suo aiuto non badando ad orari, festività, turni, straordinari non pagati; stilò vari Regolamenti che ebbero un’incidenza importante nel futuro delle Ferrovie. Non si tirò indietro quando bisognava difendere i diritti di terzi e degli operai stessi contro le Ferrovie.
Non nascose mai il suo amore per la Fede e per il papa, in quei tempi di persecuzione laico-massonica, i cui esponenti e suoi superiori, conoscendo le sue idee cattoliche e la sua forza spontanea nell’affermarle nell’ambiente di lavoro, non lo favorirono mai, umiliandolo invece, con la promozione ai gradi superiori di giovani che lui stesso aveva introdotto nel lavoro ferroviario.
Il suo tempo libero fu impiegato con entusiasmo aderendo al “Circolo Giovanile Valfré”, in cui confluiva la migliore gioventù torinese, divenendo una sorgente di proposte e un animatore di iniziative apostoliche e benefiche.
Attraverso le Conferenze di S. Vincenzo e degli Operai Cattolici, poté interessarsi dei poveri. Convinto dell’importanza della ‘buona stampa’, collaborò con s. Leonardo Murialdo per la fondazione del settimanale “La Voce dell’Operaio” con il quale si potevano diffondere i principi sociali enunciati dall’enciclica “Rerum Novarum” di papa Leone XIII.
Promosse una “Lega Mondiale degli Scrittori Cattolici” suddividendoli in tre categorie: scienze, lettere ed arti, giornalismo; egli stesso scrisse innumerevoli scritti pubblicati anonimi; fondò un Bollettino mensile che dopo varie denominazioni, nel 1885 si chiamava “Crociata”, la maggior parte degli articoli del “Bollettino Eucaristico” furono opera del suo cuore.
Anima di tanta attività era la preghiera, la meditazione della Parola di Dio, l’Adorazione del SS. Sacramento nelle chiese di S. Secondo, S. Tommaso e S. Maria di Piazza; inoltre aveva una vivissima devozione verso la Madonna.
Completò il suo vivere di fervente cristiano, entrando il 19 marzo 1875 come Terziario nella Fraternità Francescana di S. Tommaso, che come già accennato era numerosa e ben organizzata, anche per la presenza di tanti frati e frequentata da tante sante figure dell’epoca, come s. Giovanni Bosco e s. Giovanni Murialdo.
In difesa del papa si scontrò varie volte con le forze ostili massoniche (era iscritto alla Lega antimassonica); divenne impegnatissimo nella raccolta dell’Obolo di san Pietro e il suo nome compariva fra i maggiori offerenti di ogni anno e questa fu la causa del mancato avanzamento di stipendio: Il “papalino Paolo Pio Perazzo” avrebbe donato l’aumento al papa.
Innamorato dell’Eucaristia, centro e fonte della sua vita interiore, accogliendo il desiderio delle Serve di Dio le sorelle Teresa e Giuseppina Comoglio, diede vita ad una nuova Associazione, chiamata “Adorazione Quotidiana Universale Perpetua”, che avesse due intenzioni: ‘risarcire’ Cristo delle offese ricevute e ‘placare’ la divina giustizia.
Dalla esuberanza del suo amore per Gesù Eucaristia, nacque l’Associazione dei ‘Paggi del SS. Sacramento’.
L’Arciconfraternita dell’Adorazione Quotidiana Universale Perpetua venne approvata dall’Arcivescovo di Torino il 23 aprile 1892, fissandone come sede primaria la parrocchia di S. Tommaso; come direttore spirituale il parroco Enrietti e approvando lo Statuto compilato dallo stesso Perazzo, che ne diventò Presidente.
Con il beneplacito dei papi Leone XIII e s. Pio X, l’Arciconfraternita con lo zelo di Paolo Pio si estese sorprendentemente prima in tutta Torino, poi anche in altre Diocesi anche straniere. La benemerita storia della Arciconfraternita continua ancora oggi, viva e fortificante, venne approvata definitivamente dal papa il 22 novembre 1911, ma Paolo Pio Perazzo che aveva tanto chiesto ciò, nell’udienza papale del 28 ottobre precedente, non poté saperlo perché proprio quella notte del 22 novembre a Torino, quasi un’immolazione, la sua vita terrena cessò, dopo la triste avventura di una morsicatura di un cane rabbioso, avvenuta proprio a Roma il mese precedente.
La sua salma fu trasportata e sepolta a Nizza Monferrato, nella tomba di famiglia. Il 30 gennaio 1925 si aprì a Torino il Processo Ordinario sulla vita, le virtù e la fama di santità del Servo di Dio. Il 19 marzo 1953 le sue spoglie furono riportate, giungendo a Porta Nuova, nella chiesa di S. Tommaso a Torino e deposte in un sarcofago; il 6 aprile 1998 fu proclamato ‘venerabile’ con il riconoscimento delle sue virtù eroiche, da papa Giovanni Paolo II.
A causa della ristrettezza dello spazio disponibile, non si può aggiungere altro in questa scheda, ma gli aspetti spirituali, di lavoratore, di organizzatore, di laico impegnato, sono tanti che si rimanda per un approfondimento biografico alla parrocchia di S. Tommaso di Torino.



Autore: Antonio Borrelli




I promotori dell'Unione Operaia Cattolica di Torino
con San Leonardo Murialdo 
Delfina Massuero, madre di Paolo Pio







Paolo Pio Perazzo a 16 anni



Traslazione della salma di Paolo Pio Perazzo
da Nizza Monferrato a Torino il 19 marzo 1953

La salma di Paolo Pio Perazzo
accolta nella chiesa di San Tommaso
a Torino
Tomba di Paolo Pio Perazzo
nella Chiesa di San Tommaso a Torino
Articolo con il quale Paolo Pio Perazzo espone il suo programma a favore dell'Opera dell'adorazione quotidiana universale perpetua.

     "E' generale nel popolo cristiano il sentimento della necessità di riparare con atti di pietà e di virtù le iniquità che allagano e desolano la terra. e, purtroppo, i mali religiosi e morali vengono ognor crescendo ed il pervertimento dilaga ognor più, invadendo ormai tutte le classi sociali, sicchè le leggi di Dio e della Chiesa non solo sono poste in dimenticanza, ma molte volte sono calpestate con furore satanico.
     Tutti convengono che un sì increscioso stato di cose non può prolungarsi, ed i buoni vivono in apprensione per i castighi, che stanno sospesi sul capo della povera umanità, se non si resarciscono le incessanti e molteplici offese che si fanno alla divinità oltraggiata.
     Il sentimento della riparazione va facendo strada nel cuore dei cristiani, ed è perciò che, specialmente in questo scorcio di secolo, sono sorte, nel seno della Chiesa opere egregie per il santo scopo, quali: La Comunione Riparatrice, La Guardia d'Onore al Sacro cuore di Gesù, l'Adorazione notturna, i Nove Uffici del Sacro Cuore di Gesù, la Lega di Riparazione, il Carnevale Santificato ecc. ecc.
     Ma queste eccellenti pratiche sono per lo più ristrette ad un manipolo di persone e formano d'ordinario il privilegio delle sole anime più ardenti. Era quindi mestieri aggiungere un'altra opera che fosse alla portata di tutti i buoni cristiani, grandi e piccoli, giovani e vecchi, padroni e operai, uomini e donne, e per ciò stesso potesse più agevolmente diffondersi per ogni dove.
     Ed a così sentito bisogno pensarono due pie povere terziarie torinesi, e "La Crociata" è lieta di farsi l'eco di questa novella pratica riparatrice che non mancherà certo di tornare assai gradita al Cuore adoratissimo di Gesù, e che per la sua semplicità può, senza difficoltà, introdursi in ogni Parrocchia e Chiesa dove Egli sta Sacramentato.
     Ecco ora alcuni cenni intorno al movente ed allo scopo della pia pratica, sulla quale richiamo la particolare attenzione dei lettori.
     Tanto nelle città, quanto nelle campagne, il Divin Redentore è dai Cristiani lasciato per una buona parte della giornata in abbandono nel SS. Sacramento dell'altare. L'amabile Gesù se ne sta chiuso e solo nelle Chiese per lunghe e lunghe ore. Nel santo Tabernacolo Egli dimora come prigioniero. Non bastò per Lui il patire e morire sulla Croce, il dare la vita e fin l'ultima goccia del suo Sangue prezioso per amore degli uomini. Questi sconoscenti ed ingrati a così grande bontà, lasciano il buon Gesù così dimenticato, senza considerare la pena che Egli prova per tanto abbandono!
     E la pia pratica di riparazione si propone appunto di ravvivare la fede nella Divina Eucarestia, centro e sintesi della religione cattolica, procurando il maggior numero possibile di Adoratori a Gesù Sacramentato, non solamente durante le quarant'ore, ma in ogni epoca dell'anno ed in particolar modo nelle ore in cui le Chiese sono lasciate deserte.
     Gli ascritti all'opera non si assumono alcun obbligo di fermarsi per lungo tempo in Chiesa per l'Adorazione; per chi non può fermarsi nè per un'ora, nè per mezz'ora, possono bastare pochi minuti. Ognuno è  perfettamente libero di regolarsi secondo il tempo delle sue occupazioni e dei suoi impegni. L'essenziale è che si faccia strada nei Cristiani un santo impegno di non passare avanti alle Chiese, anche recandosi al lavoro, o venendone, senza entrarvi e rivolgere un saluto di riconoscenza e di amore a Gesù Sacramentato, che sta qui come Padre, come amico, come fratello per ricevere i cristiani e compatir loro le grazie di cui abbisognano.
     Con questo atto di adorazione quotidiana l'opera di riparazione forma l'intensione di risarcire l'adorabilissimo Cuor di Gesù non solo delle freddezze ed ingratitudini degli uomini, ma ancora dei disprezzi e dei peccati di gran numero di cristiani, ed in particolar modo per le bestemmie, per la profanazione delle feste, e per le irriverenze ed i sacrilegi di cui si rendono purtroppo colpevoli taluni, accostandosi, senza le dovute disposizioni, alla Mensa Eucaristica, massime nel tempo pasquale.
     Siccome poi in molte località, le Chiese sono chiuse per il pericolo di profanazioni, rimanendo deserte per buona parte della giornata, così gli ascritti all'Opera si propongono, d'accordo coll'Autorità, di ovviare a tale inconveniente ed al pericolo temuto, sia mediante la custodia della Chiesa per parte di persona fidata, sia collocando una cancellata in ferro al fondo della Chiesa, come già costume per taluni Ordini religiosi ed in alcune località di campagna. Del resto, quando non si possa far diversamente, e la prudenza lo consigli, le stesse persone adoratrici possono sorvegliare perchè non succedano inconvenienti nelle Chiese.
     Inoltre, con il medesimo spirito di fede e di riparazione, gli ascritti fanno promessa di adoperarsi perchè ritornino in fiore nelle famiglie gli usi cristiani delle preghiere del mattino e della sera, dell'Angelus Domini e del Segno della Croce prima e dopo il cibo.
     Speriamo che questi rapidi cenni invoglieranno i buoni Cristiani a farsi apostoli dell'Opera dell'Adorazione riparatrice loro proposta e si adopreranno perchè essa sia senz'altro iniziata nelle Chiese da essi frequentate.
     I Terziari e gli ascritti alla Compagnia del SS. Sacramento, del S. Cuore di Gesù, i membri di Società Cattoliche, Pie Unioni, ecc., devono essere le prime reclute dell'Opera stessa, sulle quali non potranno certo fare a meno di scendere copiose le benedizioni del Signore."
                                                                         "La Crociata",  1 agosto 1890 

Bibliografia:


Titolo: Venerabile Paolo Pio Perazzo

Autore: Pier Giuseppe Pesce OFM 

Casa Editrice: elledici


























Titolo: Paolo Pio Perazzo, il ferroviere santo

Autore: Padre Giorgio Racca (francescano)

Casa Editrice: Edizioni Messaggero Padova

Anno di pubblicazione: 1991

Presentazione: Giovanni Card. Saldarini, Arcivescovo di Torino

Prefazione: Vittorio Messori










Prefazione di Vittorio Messori:

Ha scritto Padre Bernhard Haring che è uno dei simboli stessi del rinnovamento conciliare: "Ci si sbaglia gravemente se si ritiene che il Vaticano II abbia smorzato il culto dei santi o inteso svalutarne la venerazione. Al contrario, si prefisse di approfondirla e di renderla più autentica. La venerazione di quanti la chiesa ha proclamato ufficialmente santi e di quanti sono noti solamente a Dio, è parte costitutiva della nostra lode divina. Chi lasciasse da parte i santi per venerare Dio unicamente, non sarebbe più intelligente di colui che, per esaltare la grandezza di un artista, deprezzasse i suoi capolavori".


     Dunque, il tentativo di mettere in sordina, se non di cancellare, la presenza di questi testimoni esemplari del vangelo non ha nulla a che fare con il Vaticano II, ma con le sue frettolose se non errate interpretazioni.
     In effetti, anche nella diocesi torinese i "candidati agli altari" hanno ripreso, come doveroso, il loro cammino, mostrando quanto ancora possa essere positivo e attuale il loro esempio.
     Tra la folla di coloro che, nell'eccezionale "riserva" torinese, sono in paziente lista d'attesa, vorremmo oggi richiamare l'attenzione su un "servo di Dio" di nome Paolo Pio Perazzo. Nei sei volumi, comparsi sotto il titolo I Santi ci sono ancora, Padre Domenico Mondrone de "La civiltà cattolica" scriveva: "Nel 1961 fu emesso il decreto per l'introduzione della causa di beatificazione del Perazzo. Tuttavia, egli non è conosciuto, nessuno parla o scrive di lui per divulgarne gli splendidi esempi". In realtà, anche qui qualcosa si sta muovendo e ne fa fede questa nuova biografia scritta da padre Giorgio Racca, ofm, a distanza di un sessantennio dalla prima scritta da padre Mariano Manni, ofm.
     Perchè oggi parlare di questo "servo di Dio" quasi dimenticato? Il fatto è che in questi tempi di polemiche sui decenni dell'unità nazionale e sul ruolo svolto dai cattolici, Paolo Pio Perazzo è un perfetto esemplare di quegli "italiani seri" che non solo alla chiesa, ma anche alla patria, diedero intelligenza, lavoro, fedeltà, dedizione. Ricevendo, però, da quella patria medesima, derisioni, umiliazioni se non persecuzioni, perchè rei di essere "papalini"; per l'unica colpa di affiancare a uno straordinario impegno professionale a servizio della collettività l'appartenenza a viso aperto alla comunione ecclesiale.



     Nato a Nizza Monferrato nel 1846 e morto nel 1911 a Torino (perchè morsicato per strada, a Roma, da un cane idrofobo: proprio lui che era stato a lungo tormentato da apparizioni demoniache sotto forma di bestie minacciose), Perazzo fu giornalista, scrittore, organizzatore di sindacati cattolici, terziario francescano, socio vincenziano, apostolo dell'Opera dell'adorazione eucaristica quotidiana. Si deve anzi soprattutto al suo entusiastico lavoro se quell'Opera prese vita e assunse dimensioni internazionali.


     Ma a queste attività dedicava praticamente solo le notti. Di professione, in effetti, fu ferroviere e costituì uno dei più scandalosi esempi della sorte che toccò a molti cattolici inseriti in organizzazioni dove (per dirla col suo primo biografo) "si misuravano gli uomini colla squadra e col triangolo massonici".
     Entrato in ferrovia, quindicenne, nel 1861, come "volontario" (lavorando cioè gratuitamente nella speranza di essere poi assunto), cominciò da lì quello che Padre Mondrone non esita a chiamare "un calvario". Approfittando infatti della sua straordinaria intelligenza, del suo talento organizzativo, della sua dedizione senza limiti al dovere, l'amministrazione lo caricò di impegni di grandissima responsabilità, senza però mai riconoscergli nè il grado nè lo stipendio. Solo dopo venticinque anni di gravosissimo lavoro fu fatto capo ufficio, mentre i giovani che egli stesso aveva formati erano già molto più avanti e mentre sotto di sè aveva dipendenti con stipendio superiore al suo. Da lì, comunque, per altri vent'anni non si mosse più, divenendo la favola delle ferrovie, essendo il più anziano rimasto in quel grado, al minimo dello stipendio. In anticipo, poi, e con un preavviso di due soli giorni, fu mandato in pensione per non riconoscergli quell'aumento di grado e di retribuzione che ormai tutti i dipendenti chiedevano a gran voce. Per sprezzo, fu il solo a cui non venne riconosciuta la tessera di libera circolazione. Costrettovi dagli amici ricorse al Consiglio di stato ma, per dirla ancora col Mondrone, "anche qui la longa manus della massoneria infierì con un colpo di grazia", scandalosamente respingendo il ricorso.
     Per decenni era stato a tal punto oberato dal lavoro (una dozzina di ore al giorno e per anni senza riposo domenicale e senza ferie), che ne ricavò una congestione cerebrale. La retribuzione dovutagli gli fu sempre rifiutata con la singolare motivazione che, destinando egli parte dello stipendio all'Obolo di San Pietro, era dannoso alla causa nazionale dargli il salario intero. Lagnatosi una volta per un  ennesimo sopruso, l'amministrazione rispose con questi testuali parole: "Il vangelo comanda che si porga sempre l'altra guancia. Osservi dunque il vangelo, lei che ne è il seguace fedelissimo!". E molte volte i dirigenti gli ripetevano per scherno: "Rassegnazione, monsù Perazzo, la sua morale cattolica raccomanda rassegnazione!". E intanto, sulla sua scrivania rovesciavano altre pratiche, da lui disimpegnate con tanto impegno e capacità che per decenni le ferrovie italiane funzionarono con i regolamenti da lui escogitati.   
     Eppure, dimentico di chiedere giustizia per sè, si batteva per quella degli altri; giunse a dare parte del suo misero stipendio ai colleghi che non avevano ricevuto un aumento; o ad ospitare gratis in casa aspiranti ferrovieri che, a Torino per i concorsi, non potevano permettersi l'albergo. Ed era sempre in giro per uffici non per curare la sua carriera, ma per difendere i diritti di vedove e figli di ferrovieri. Il "santo della stazione", come lo chiamò la voce popolare. Uno di quegli esemplari dell'Italia "reale", quella cattolica, che dall'Italia "legale", quella della settaria casta oligarchica che gestiva il potere, non ebbe che persecuzioni e beffe in cambio del fedele servizio al paese.

VITTORIO MESSORI